E' la fabbrica del consenso. Ogni forma di governo, ogni regime, ogni struttura gerarchica che voglia continuare a campare ne ha sempre avuta una propria che la giustifichi e che motivi e gratifichi i propri sottoposti.
Qualche volta questa fabbrica è più evidente, qualche volta è più implicita. Qualche volta è una censura istituzionale, un ufficio di propaganda ben definito, una legge capestro sulla libertà di stampa, mentre in alcuni casi è solo una serie di forze naturali, che non per questo possono considerarsi eque, un po' come non può considerarsi tale la legge della giungla.
Più la fabbrica è efficiente, più è invisibile e impercettibile e allo stesso tempo pervasiva e avvolgente come l'aria, ma impenetrabile come un muro di gomma.
Meno di un anno fa ho avuto l'occasione di leggere il libro "La fabbrica del consenso" di Edward S. Herman e Noam Chomsky. Con questo articolo voglio sintetizzare le tesi del libro e dare qualche spunto di riflessione. Il punto che il libro si propone di dimostrare e spiegare è che le cosiddette democrazie occidentali (e in particolare quella leader degli USA), pur fondandosi apparentemente solo su delle "libertà" come quella di impresa, di parola, di stampa, di associazione ecc, hanno in sé dei vincoli automatici che ostacolano in maniera determinante la circolazione equa dell'informazione e dell'esposizione dei pareri, delle idee, dei punti di vista. Questa tesi viene chiamata "modello di propaganda".
Come è possibile che si generino questi vincoli in democrazie dove vige la libertà di parola e di stampa? La risposta è che la società capitalistica, basandosi sul libero mercato in ogni aspetto della circolazione delle notizie, produce automaticamente dei filtri che assecondano il punto di vista di una classe privilegiata, persino contro l'evidenza dei fatti.
Cominciamo quindi con la descrizione di questi filtri.
Il primo filtro, che è anche il più scontato, è la proprietà. Possedere un mezzo di comunicazione di massa non è da tutti: ci vogliono tanti soldi per sostenere un'attività duratura che produca flussi ininterrotti di notizie, consumi tonnellate di carta di qualità, invii reporter qualificati in ogni parte del mondo, ottenga la costosa concessione per trasmettere su frequenze nazionali, distribuisca contenuti aggiuntivi insieme al pacchetto (come libri e videocassette allegate ai giornali), produca film pieni di effetti speciali e trasmissioni dai budget faraonici. E quando dico "tanti" soldi intendo "a palate". Chiunque sia in possesso dei requisiti finanziari che consentano di ottenere questi mezzi, evidentemente appartiene ad una classe privilegiata non perfettamente rappresentativa di tutta la popolazione e che influenzerà in qualche modo i contenuti trasmessi nel mezzo. In alcuni casi sarebbe possibile accedere a simili capitali attraverso l'associazione di più individui appartenenti a una classe non privilegiata, ma ciò è vero entro certi limiti: da una parte la competizione rende sempre più difficile sostenere delle attività così dispendiose senza orientarle al profitto e senza l'appoggio di chi controlla lucrose attività produttive, dall'altra chi dirigerà poi materialmente un mezzo di comunicazione così ricco e importante rischia egli stesso di entrare a far parte della classe privilegiata. Comunque sia nella stragrande maggioranza dei casi i gruppi economici che gestiscono questi mezzi sono gli stessi proprietari di altre gigantesche strutture produttive. Per citare un esempio su tanti, il colosso industriale americano General Electric controlla anche la NBC Universal, grande compagnia di media ed entertainment, ma anche in Italia non mancano certo esempi simili. Gli stessi ricchi dirigenti di queste società passano da una industria manifatturiera ad una società di comunicazione e viceversa, con una certa disinvoltura. Riassumendo, la selezione del libero mercato tende a produrre concentrazioni di società di comunicazione sempre più grandi in dimensioni, sempre più legate a doppio filo con la proprietà delle attività produttive, dirette sempre più spesso dagli stessi loro dirigenti, sempre più orientate al profitto che le autosostenga.
Un secondo filtro, non meno importante, è la pubblicità. Gli inserzionisti (altre grosse società) assumono il potere di decidere a chi fornire un vantaggio competitivo nel libero mercato scegliendo su quale mezzo acquistare spazi pubblicitari. L'inserzionista favorisce chi trasmette dei contenuti che non mettano in discussione i suoi prodotti, il sistema capitalistico che lo fa prosperare, la classe privilegiata a cui appartiene il proprietario, ma anche quei contenuti, meglio se diretti ad un lettore in condizione di spendere molto, che creino un clima adatto a rendere il fruitore propenso all'acquisto dei suoi beni e servizi. L'editore, da parte sua, compete più che può per assecondare i desideri dell'inserzionista, essendo orientato al profitto, e dovendo competere con chi, avendo tanti inserzionisti, ha a disposizione più capitali da investire nell'attività di comunicazione. Stravolgendo il senso comune si potrebbe dire che l'editore non vende contenuti ad un lettore o spettatore, ma che al contrario vende il proprio pubblico a degli inserzionisti usando i contenuti come riempitivi per ospitarne la pubblicità. Considerato che per l'inserzionista è essenziale che il riempitivo non sia a lui ostile, che il pubblico non è tutto uguale ma vale di più quello che può spendere di più, che si calcola dal 70% al 95% la percentuale di introiti di tv e giornali derivante dalla pubblicità, diventa ovvio quale sia l'influenza che essa esercita sulle notizie. L'editore che non inseguirà lo sponsor soccomberà alla selezione naturale del libero mercato.
Il terzo filtro sono le fonti di notizie. I mezzi di comunicazione di massa hanno l'esigenza di un flusso costante di notizie affidabili da trasmettere, possibilmente in una forma quanto più possibile "pronta all'uso". Naturalmente è impossibile avere giornalisti disseminati in ogni luogo in cui sia possibile un evento da riportare, perciò ci si concentra presso le fonti di notizie maggiori, dove si fanno tante conferenze stampa e si emettono continuamente importanti dichiarazioni e comunicati, si producono statistiche. Inoltre riportare notizie da fonti non ufficiali espone in alcuni casi a problemi legali come cause per diffamazione. Le fonti che rispondono nel miglior modo possibile alle esigenze dei mezzi di comunicazione finiscono quindi per essere quelle governative, le più "ufficiali", le più numerose, quelle avvalorate dai presunti esperti più autorevoli, le più orientate alla stampa. Istituzioni come il Pentagono degli USA spendono capitali inarrivabili per gli altri nella pubblicazione di dossier, nella diffusione di comunicati, di dati di vario genere. Inoltre queste istituzioni hanno spesso dei contatti diretti sui luoghi in cui si verificano gli eventi e cercano di fornire le notizie in una forma quanto più possibile già pronta all'uso per i media, addirittura sincronizzando in una certa misura gli orari delle conferenze stampa con quelli dei notiziari televisivi. Naturalmente le fonti governative hanno una posizione politica ben definita e motivata e operano un'accurata selezione delle notizie su cui bisogna insistere, trascurando quelle più scomode, imponendo implicitamente su di esse il proprio punto di vista, dosando il tono e i dettagli più funzionali ai propri scopi. L'utilizzo di fonti con una pretesa di notevole oggettività come il governo consente fra l'altro di ridurre la spesa in vera investigazione giornalistica. Stando così le cose, si forma un rapporto di reciproco interesse tra il governo che spesso produce le notizie (tante, pronte, "ufficiali") e il mezzo di comunicazione che si limita a riferirle al grande pubblico. La dipendenza delle società di comunicazione diventa tale che non è più conveniente criticare una fonte così importante per la propria attività, tanto più che il governo è lo stesso che concede le licenze di uso di risorse preziose come la banda di trasmissione televisiva. In questa posizione di "fornitore", il governo può ostacolare con il suo peso una politica sfavorevole di una società di comunicazione, ad esempio imponendo ai propri esperti militari di non partecipare alle trasmissioni in cui siano invitati anche personaggi ad esso sgraditi. Il governo può anche dar vita o sponsorizzare una serie di enti, istituzioni o comitati che diano una maggiore aura di autorevolezza a questi suoi esperti, ostracizzando invece quelli ostili.
Gli ultimi due filtri li vedremo meglio nella seconda parte di questo articolo, ma per ora si può anticipare che sono in un certo senso indirette conseguenze dei primi tre. L'uno tratta in particolare degli attacchi polemici, concertati o meno da varie lobby, rivolti a un particolare articolo o trasmissione televisiva che canti "fuori dal coro" della propaganda governativa. L'altro è l'ideologia, tradizionalmente identificabile in Occidente, ma soprattutto negli USA, con l'anticomunismo, e che più di recente è stata gradualmente trasformata nella più generica guerra al terrorismo, dove con esso si tende ad etichettare chiunque si opponga con le armi alla politica estera del governo americano.
Continua...